Possibile traduzione italiana di Galapagos: Maremma. Basta mettere arsenico e mercurio al posto del petrolio, pozzi d’acqua dolce, fiumi e terreni al posto del mare, discariche a cielo aperto invece delle vecchie petroliere, e il disastro è fatto.
Non ci si può nemmeno appellare al caso o alle condizioni meteo, perché qui è tutta mirabile opera dell’uomo. Come dire che ognuno ha le Galapagos che si merita.
Siamo in Toscana, nella provincia di Grosseto, tra il mare e le colline metallifere, in una zona che sta cercando di uscire dalla crisi economica causata dalla chiusura delle miniere, grazie al turismo e all’agricoltura, magari biologica. Ma nell’area, pur ricca di torrenti, canali e falde acquifere, d’estate manca l’acqua. Alcuni pozzi sono stati chiusi perché pesantemente inquinati da arsenico e mercurio. I cittadini, riuniti in comitati, protestano e segnalano.
La magistratura sta indagando. Ma le questioni aperte sono davvero tante. Troppe. Per anni, infatti, prima la Montedison e poi l’Eni hanno estratto dalle miniere della zona, e lavorato nell’impianto chimico di Scarlino, la pirite necessaria a produrre acido solforico. Le scorie di lavorazione, ceneri ricche di metalli pesanti come piombo e arsenico, sono state ammucchiate qua e là, in discariche a cielo aperto, senza particolari precauzioni. Una di queste, nella zona detta Casone di Scarlino, non recintata e a pochi passi dalla strada provinciale, ha fruttato poche settimane fa una condanna in primo grado ai dirigenti della società che ha acquistato dall’Eni gli impianti. Parte degli scarti della vecchia produzione, inoltre, classificati come terra sterile dall’Eni, sono stati dati negli anni scorsi agli agricoltori per costruire argini e strade poderali, e utilizzati anche, con una lieve copertura di terriccio, per bonificare parte delle discariche stesse che, per altro, sono andate a coprire e distruggere le belle paludi della zona.
Quando nel ’92, sia per motivi economici sia per le pesanti ricadute sull’ambiente, l’Eni mise a punto un diverso modo di produrre acido solforico, utilizzando lo zolfo e non più la pirite, le miniere furono progressivamente chiuse e si cominciò a parlare di messa in sicurezza, ripristino ambientale e bonifiche varie. A parole, tutti d’accordo. Ma in realtà… Racconta Roberto Barocci, un ex consigliere provinciale di Rifondazione comunista che, a fianco dei comitati dei cittadini, dei Verdi e della Coldiretti, ha denunciato fin dall’inizio le inadempienze e le lentezze della società e delle amministrazioni locali, rette da una maggioranza di Centrosinistra: «Tutta questa storia è piena di inspiegabili lentezze, strani accordi, rinvii ingiustificati. C’è da chiedersi chi governa, davvero, nel nostro Paese». E fa degli esempi.
«Nella primavera del ’96, il comitato di minatori denunciò lo stoccaggio nella miniera di Campiano di rifiuti nocivi e di ceneri di pirite. L’intento era quello di impedire la chiusura della miniera, perché questo avrebbe significato anche l’interruzione del drenaggio delle acque di falda e quindi il contatto tra i rifiuti e le acque, con conseguente inquinamento. Le ceneri di pirite, infatti, sono piene di arsenico, piombo e cadmio ma, secondo le analisi presentate dall’Eni, non avrebbero ceduto all’acqua i metalli in quantità tossica. Tant’è vero che, nel corso degli anni, le ceneri sono state usate per fare strade poderali, argini e opere di bonifica delle discariche».
Ascoltato il 7 luglio 1998 dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti, l’allora amministratore delegato dell’Eni Franco Bernabè parlò di impegni precisi assunti dall’azienda sul fronte ambientale. Ecco uno stralcio del suo intervento: “Fin dal 1992 abbiamo avviato un’operazione di trasparenza e di comunicazione a livello ambientale, sollecitando le nostre imprese a migliorare gli strumenti, l’organizzazione e le metodologie basate sul principio della prevenzione del danno ambientale. L’Eni ha emanato nuove linee guida che hanno anche l’obiettivo di tutelare il territorio e l’incolumità pubblica al di là dei princìpi normativi vigenti. Abbiamo voluto dare indicazioni più tassative e ampie di quanto previsto dalla legge. Le società caposettore stanno cercando, su mia precisa indicazione, di rimuovere le conseguenze che dovessero ancora emergere come frutto di situazioni di insensibilità verso le problematiche ambientali, caratteristiche delle gestioni del passato”.
“L’Eni”, continuava Bernabè, “ha dato e ancora più darà precise direttive alle società di procedere sollecitamente a tutte le indagini e alle bonifiche di quei terreni che sono oggi proprietà delle singole società del gruppo, anche se essi ci sono pervenuti dall’esterno, da fusioni o acquisizioni. Enitecnologie, la società di ricerca scientifica del gruppo, ha messo a punto tecnologie d’avanguardia per il risanamento dei siti. Ribadisco che per la risoluzione dei gravi problemi ambientali, frutto delle gestioni del passato, occorre determinazione nel risolvere in tempi rapidi i problemi che dovessero ancora emergere”. b.car.
Continua Barocci: «Ma qualcosa non ci quadrava: i camionisti che avevano lavorato per l’Eni dicevano di aver trasportato nella zona materiali pericolosi, che corrodevano i pianali dei camion. Facemmo delle indagini e chiedemmo a Comuni, Provincia e Regione di ripetere le analisi e di inserire le miniere e i bacini di decantazione della zona nel piano bonifiche. Tutto inutile. Cominciammo a capire il motivo di queste omissioni quando, studiando una relazione tecnica dell’Università di Bologna, ci rendemmo conto che le analisi fornite dall’Eni erano parziali. Tant’è vero che il direttore del dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche dell’Università di Siena, professor Tiezzi, ci certificò la non validità di queste analisi prodotte dalla società per ottenere dalla Regione Toscana che le ceneri di pirite fossero utilizzate in superficie. Ma allora, come erano stati fatti i controlli dai vari uffici pubblici?».
«Iniziammo una verifica su più aree della Provincia e ci accorgemmo che il caso di Campiano non era isolato», aggiunge Marco Stefanini, della federazione toscana dei Verdi. «Ipotizzammo che la chiusura di alcuni pozzi di acqua potabile, a Massa Marittima e Follonica, per inquinamento da arsenico e mercurio, poteva essere messa in relazione con le discariche. Ora anche la magistratura sta indagando ed è venuto fuori che le ceneri di pirite prelevate nell’azienda, che nel frattempo l’Eni ha ceduto alla Nuova Solmine, sono fuori norma per il contenuto di arsenico e per la cessione di piombo, rame e cadmio. I minatori avevano ragione».
La battaglia continua. Da una parte si sostiene che l’eccessiva presenza di arsenico e di mercurio è diffusa in tutta la zona ed è dovuta alla caratteristica geologica del territorio, situato a ridosso delle colline metallifere, e dai movimenti naturali delle falde. Quindi l’Eni non dovrà procedere a tutte le bonifiche, costose e complicate, ma, in alcuni punti, solo al più semplice ripristino ambientale. Dall’altra parte i cittadini sostengono che le analisi fatte per dimostrare che c’è arsenico anche nei campi lontani dalle discariche e dalle miniere sono ancora una volta parziali. «Il terreno analizzato è stato prelevato vicino alle strade poderali costruite proprio con le ceneri di pirite», segnala Renzo Fedi, presidente della sezione comunale di Follonica della Coldiretti.
Nel frattempo i responsabili dell’Eni, ascoltati dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti, che sta per presentare una relazione, lamentano un’eccessiva lentezza delle istituzioni nell’approvare i piani di bonifica presentati dall’azienda. Su 21 progetti relativi ad altrettanti siti proposti nel ’97, infatti, solo quattro sono ormai definitivi, e gli altri 17 in lista d’attesa. «La situazione è complessa », ammette Massimo Scalia, presidente della Commissione parlamentare.
«Quella zona è molto inquinata e l’Eni, come a Marghera e altrove, ha pesanti responsabilità. L’ambiente non è mai stato considerato importante dal mondo industriale. Ma il principio che “chi inquina paga” è difficile da applicare, perché non sempre si riescono a dimostrare le connessioni dirette. La soluzione? Una trattativa fra tutti i soggetti interessati, cittadini compresi, perché si arrivi a soluzioni concordate, e questo è possibile soprattutto quando l’azienda è interessata a mantenere una presenza su quel territorio. Oppure fare come Erin Brockovich, protagonista di quel film con Julia Roberts in cui i cittadini portano la battaglia nelle aule dei tribunali. E a volte riescono a vincere».
Barbara Carazzolo
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